5coinquilini

venerdì, agosto 18, 2006

LONDON CALLING

Carissimi ben ritrovati,
Primi giorni a Londra e primi giorni lontano da Milano che senza neanche dirlo non manca per niente a nessuno. Gli inglesi vivono in un’altra dimensione. Non ricordavo bene com’era Londra e soprattutto com’era viverci. I londinesi sono diversi e non c’e‘ bisogno che lo dica io. In realta‘ vedendola adesso non mi sembra di aver vissuto per 4 mesi in questa citta‘. L’altro ieri sono tornata nel posto in cui vivevo e a parte il tizio alla reception che dopo quasi 4 anni mi riconosce e mi saluta era tutto un po‘ diverso. Carlo vive a Notting Hill gate, praticamente dietro la queensway, la strada in cui vivevo io. Ci vogliono tre secondi per farmi arrivare al vecchio dormitorio. Sono convinta di trovare le stesse persone ma ovvio che non trovo nessuno. Il tizio di origine pakistana alla reception mi dice che per loro sono tempi un po‘ brutti per stare a Londra ma che ormai non se la sente di andare via. Mi dice che il mio vecchio compagni di stanza, Damien, e‘ tornato l’anno scorso ed e‘ restato un paio di settimane e poi e‘ scomparso come sempre. Chissa‘ dove sara‘ finito anche lui. All’angolo della strada c’era il negozio di un indiano. La moglie mi ha cucinato un sacco di volte la cena con tutte quelle cose che mangiano loro piene di odori che ti si attaccano addosso per ore. Ora al suo posto c’e‘ footlocker. Provo tristezza perche‘ questo posto ha rappresentato una parte della mia vita ed ora invece non c’e‘ piu‘. Mentre parlo con il tizio dell’hotel di questo negozio arriva un ragazzo con uno zaino enorme, chiede una stanza e sale le scale cigolanti. Funziona cosi‘ in questi posti, oggi ci sei tu, ci vivi per un po‘ e poi arrivano altre persone. Mi chiede se voglio usare la cucina o il bagno ma gli dico che devo andare e lo saluto. Mi dice di tornare o se voglio lasciare un messaggio per Damien perche‘ lui ancora riceve li‘ la posta. Scrivo una cosa veloce e stupida su un foglietto per questo pazzo australiano con cui ho vissuto e me ne vado. Ovvio che vado ad Hide Park. Faccio la strada che facevo un tempo, stessa entrata, stesso cancello, stesso baracchino dei gelati. Poi torno a casa di Carlo, adesso e‘ la sua Londra. Avra‘ un sacco di cose di cui ricordarsi, le strade, I supermercati, I lavori, le persone che incontra e tante altre cose.
Carlo non mi sembra sistemato male,sembra solo molto sciupato e stanco ma e‘ un po‘ questa citta‘ che ti consuma. Vive con la sua ragazza, Elisa, con Alberto e con un certo Harry, detto Harry the king, di anni 40. Harry e‘ tipicamente inglese, rosso, lentiggisono, bianchiccio e molliccio. Come solo I veri inglesi sanno esserlo. Ieri aveva il pomeriggio libero e io, lui e il Vanza siamo andati alla Tate gallery. A parte la vista del ponte diretto in faccia a St Paul, la zona non mi e‘ mai piaciuta. E‘ tutto pieno di ragazzini che disprezzano quello che c’e‘ dentro il museo e sono li‘ solo perche‘ la maestra li ha obbligati. Entro in una stanza e ci trovo uno dei piu‘ grandi quadri di Jackson Pollock. Il primo quadro che vidi suo, in una foto sua che fece per un giornale americano. Lui appoggiato con le spalle a questo enorme quadro orizzontale, con la giacca e le mani in tasca. Non resta il mio quadro preferito suo ma e‘ il primo che ho visto. E non avevo mai visto nulla di simile e da allora e‘ cominciata la mia passione per la sua pittura. Mentre sono li‘ in pace senza rompere le palle a nessuno, due ragazzine, manco a dirlo italiane, arrivano, si piazzano davanti alla gente e gridano: che schifo! Io lo saprei fare meglio!. La detesto questa gente, non perche‘ era quel quadro ma in generale le persone che non capiscono. A me non piacciono molti artisti classici, che non mi dicono nulla ma non mi sognerei mai di andare in un museo a dire che schifo. Non comprendo come certi quadri possano essere considerati dei capolavori, ma sto in silenzio e rispetto l’opinione altrui. E in questi musei contemporanei e‘ pieno di gente che scuote la testa e dice lo saprei fare meglio io oppure questa non e‘ arte. Prima di insegnare ai ragazzini la storia dell’arte e di portarli obbligandoli in un museo, dovrebbero insegnarli il rispetto per le forme artistiche.
Harry comunque concorda con me.
Poi abbiamo fatto un giro per Oxford Street, un altro posto detestabile di Londra. Mi chiedo e soprattutto il Vanza se lo chiede, come le commesse possano lavorare in quei negozi. La musica e‘ altissima. Non puoi entrare in un negozio e sentire il disco dei Chemical Brothers sparato a mille per piu‘ di 30 minuti. Come fai a lavorarci? Quasi non riuscivamo a parlare tra di noi. Il Vanza coinvolto in questo dilemma esistenziale, si avvicina ad una commessa e le chiede come faccia a lavorare con tutta quella musica, le chiede se porta dei tappi e se alla sera quando torna a casa ha mal di testa. La ragazza sorride, agita una mano, ride di nuovo e se ne va. Poi indica il Vanza al tizio nero e grosso che sta all’ingresso e tutti capiamo che e‘ tempo di andarcene e che il quesito restera‘ irrisolto.
Dormo pochissimo, per via della sistemazione, al limite dell’accettabilita‘, perche‘ Harry the king torna a casa sempre di notte e fa casino e perche‘ russa tantissimo.
Il primo giorno che l’ho visto aveva I pantaloni corti e dei vistosi lividi sulle ginocchia, mi sono chiesta come se li facesse. L’ho scoperto alla sera, quando tornata a casa ubriaco e‘ rovinosamente rotolato sulla tipica scala inglese. Stretta, buia, cigolante e ovviamente ricoperta di orrenda moquette.
Ora scrivo da una biblioteca, mentre Carlo, Elisa ed Alberto sono al lavoro e mentre il Vanza e Harry sono andati a fare la spesa.
La prossima volta scrivo del meraviglioso lavoro di Carlo, incastrato in un caffe‘ nella City, e del suo piano per far sparire tutta la gente sempre vestita di nero che si aggira per quella parte di Londra.


Mi scuso per gli errori, non ho assolutamente tempo per rileggere e soprattutto non esistendo gli accenti sulla tastiera ho usato l'apostrofo.